Il legame tra Orsetta de’ Rossi e Serena Dandini risale al grande successo della “Tv delle ragazze”, la trasmissione cult di Raitre che rappresentò l’esordio di Orsetta sul piccolo schermo. Dopo quel battesimo è arrivato anche il grande cinema, con registi come Mimmo Calopresti, Cristina Comenicini e Carlo Verdone. Anche per Orsetta l’adesione al progetto “Ferite a morte” è arrivata immediatamente, quando ancora il reading muoveva i primi passi nei teatri del Paese. Oggi quell’adesione diventa una vera e propria presa in carico che porterà Orsetta e tutto il cast in quasi quaranta arene, da nord a sud.
A chi parlano le donne di “Ferite a morte”?
«Le donne che Serena Dandini ha raccolto nello spettacolo parlano a tutti noi: sono una sorta di coro unanime che si rivolge allo stesso modo, senza distinzione, a uomini e donne, superando quella trappola autoreferenziale che da sempre è il limite del dibattito sulla violenza di genere, cioè la convinzione che la violenza sulle donne riguardi soltanto le donne. Non solo: le voci di quelle donne, ma soprattutto le loro storie, rappresentano un imperativo non solo morale ma anche fattivo per l’azione del legislatore. In questo senso qualcosa in Italia si sta già muovendo ma il traguardo è ancora molto lontano».
Lei ha aderito al progetto “Ferite a morte” fin dalle sue prime pionieristiche tappe: cosa l’ha colpita in particolare di quelle storie?
«Del lavoro di Serena mi ha colpito innanzitutto la verità, il suo saper porre all’attenzione del grande pubblico la violenza di genere per come realmente si manifesta nella vita delle donne. Poi mi ha colpito la forza, l’energia di trasformare quello che è un lutto per la nostra società in un’azione di denuncia. E infine mi hanno colpito la potenza delle storie per chi le ascolta e la profonda indignazione che provocano e che ogni volta diventa tangibile nei feedback del pubblico alla fine di ogni rappresentazione».
Il femminicidio si nutre di una cultura profondamente maschilista: quanto è diffusa secondo lei nella nostra società?
«Purtroppo ancora molto: la dimostrazione più lampante la otteniamo accendendo la televisione, su qualsiasi canale e in qualsiasi ora del giorno. Inevitabilmente ci imbattiamo in un uso aberrante del corpo della donna, tanto in certi programmi televisivi quanto nella pubblicità: un linguaggio che depersonalizza le donne rendendole cinicamente una merce».